Episodio breve [31]: Due rette parallele s’incontrano solo all’infinito.

Vivo in una zona piuttosto trafficata di Barcellona. Mi affaccio al balcone e sotto di me scorrono fiumi di luci veloci. La brezza fresca e umida che viene direttamente dal mare è una risata lontana che lascia scintille salate sulle labbra; come baci fugaci, come graffi di piacere. Sta arrivando l’estate, non ho più bisogno di coprirmi per uscire in terrazza, a maniche corte respiro i sospiri del vento fra gli alberi. Barcelona che sbadiglia e si spoglia per coricarsi mentre sul pavimento lascia i vestiti consunti di un’atra giornata frenetica. Copre le sue nudità con le onde del mare e con le strade che cominciano a svuotarsi. E prima spegne i lampioni, poi spegne le luci nelle case degli altri. Dà l’ultima buonanotte e lascia che i non dormienti la accompagnino durante il sonno leggero, mentre pulisce il cielo dalle nuvole per prepararsi alla mattinata seguente.

Ultimamente penso spesso a come sarebbe stato. Cosa sarebbe successo se avessi preso altre decisioni nella mia vita, se avessi seguito persone che avrei voluto seguire, se avessi ascoltato la ragione invece che il cuore. Se fossi stata meno intrepida e avessi avuto un minimo di paura. Tutte le strade che ho intrapreso senza mai ragionarci troppo e ora mi ritrovo con lo sguardo perso a chiedermi se avessi dovuto pormi qualche domanda o qualche dubbio in più. Adesso dove sarei? Adesso come sarei? E con chi? E come e perché. Una volta ho letto da qualche parte che tendiamo sempre a pensare che le scelte non fatte, lasciate da parte per altre in un determinato momento della nostra vita, fossero migliori. E ci soffermiamo ad annaffiare speranze piantate in vasi di fantasie e dimensioni parallele in cui saremmo stati più felici e appagati. E continuiamo a versare, settimana dopo settimana, fino a oltrepassare generosamente l’orlo immaginario e lasciar sgorgare questa cascata di “come sarebbe stato” senza veder crescere nulla. Lasciamo che inondi e inzuppi tutto quello che abbiamo costruito fino adesso: i risultati ottenuti attraverso le decisioni preferite ad altre, le emozioni scoperte e riscoperte, tutta una vita vissuta tra alti e bassi; su una tavola da paddlesurf a sentire le carezze lente del mare sballottarci leggermente. Su questa tavola, con il calore che arrossa e incendia le guance, che le abbraccia fino a sgretolarle, ci chiediamo “come sarebbe stato” senza accorgerci che il sole ha sbiadito i capelli di felicità e ci ha punteggiato il viso d’amore.

Se fossi rimasta, se fossi partita, se fossi andata a vivere in Inghilterra, se avessi iniziato l’università a Edimburgo, a Milano, a Bologna, se avessi fatto le pratiche per l’erasmus a Roma; se avessi scelto il cuore, se avessi scelto di fermarmi a ragionare un po’. Mentre inalo boccate amare, con la stessa brezza dal sapore estivo che volteggia contenta tra i miei capelli, penso a un’altra dimensione, spogliata di quella bellezza ideale con cui si assaggiano le aspettative irrealistiche e le occasioni perse. È un gioco della mente di cui mi piace l’inganno e la finzione. Quel sottile filo che divide un’ipotesi da una possibile realtà perché tutto quello che serve è a uno schiocco di dita, un semplice: “basta, lo faccio.” Una frase dalle potenzialità taglienti, più volte ho versato gocce di sangue su candide speranze. M’inganno introducendomi in questa dimensione lontana e fittizia in cui parto per la Nuova Zelanda, senza progetti. Magari allestisco un poke- shop o un hamburgueria sulla spiaggia, oppure un negozio di camicie di flanella in città. In tutto questo sono accompagnata da un lui cui destino ha deciso di intrecciare brevemente con il mio; un incontro fortuito, un incrocio di cammino, un abbraccio di coscienze, il forte desiderio di continuare insieme per strade separate. Siamo due linee che convergono, s’incrociano e “perché non ti ho conosciuto prima?”. Questo è il problema e da qui nascono tutti i miei dubbi, il seme che annaffio ogni giorno, ma due rette parallele s’incontrano solo all’infinito; in un’altra dimensione ci saremmo amati.

Annerita dal sole, con i capelli di un biondo bruciato, su una tavola da paddlesurf in mezzo all’oceano, la pancia ripiena di riso e salmone di una poke, la testa apparentemente vuota da problemi o programmi. I movimenti lenti della tavola che accarezza la superficie, il silenzio di una giornata di sole mentre penso a come sarebbe stato se fossi rimasta a Barcellona.

Fine episodio breve [31].

Questo mese il blog “Episodi (abbastanza) brevi”, letture da mezzi di trasporto, compie due anni di attività. Sono molto contenta dei miei piccoli risultati e ringrazio tutti calorosamente per avermi accompagnato (e spero che continuiate ad accompagnarmi) nell’ “inizio” di un sogno immenso. Da qualche parte si deve pur sempre iniziare!

Grazie ancora di cuore.

Em2ma

Episodio breve [29]: Al chiaro di luna.

Approfitto di questa giornata per ricordare un cliché, una frase ricorrente e quasi banale ma che ho intenzione di gridare con tutte le mie forze attraverso questo episodio breve: la “festa” della donna va ricordata ogni giorno. Di giorno e, soprattutto, di notte, quando le luci nelle case degli altri sono spente e solo i lampioni della strada illuminano i passi solitari.

Al chiaro di luna ti ricordi che sei donna. Cerchi le zone di luce perché il buio cela il dubbio, come quando da bambina volevi la porta socchiusa e uno spiraglio di luce che illuminava, in parte, la cameretta oscura. La notte cambia i visi delle bambole con cui di giorno giocavi, le trasforma in maschere sghignazzanti dalle smorfie impenetrabili e i sorrisi maligni.

I passi sempre più veloci e il suono inconfondibile di tacchi da donna. Un suono che allarma i lupi e gli allaga la bocca di bava, un suono che risveglia voglie oscene, oscure, che si mescolano con il buio. E rimangono nascosti negli angoli delle viuzze, in attesa di un passo falso. Sagome indistinte, appoggiate ai muri, solo le fauci affamate brillano tra sorrisi maliziosi che non devi guardare. Non devi guardare. Non devi girarti. Usa le vetrine per vedere se qualcuno ti sta seguendo o è troppo vicino. Passo dopo passo. Nella mano destra le chiavi di casa, strette con forza per ricordarti che sei vicina. Ma allo stesso tempo, troppo lontana. Il cuore che accelera con il presentimento di non essere sola. Rimani sotto la luce dei lampioni, sotto quella falsa sicurezza che ti cullava anche da bambina. La luce che allontana i mostri famelici che ululano alla luna piena: “Dove vai tutta sola?” “Guapa, ¿Adónde vas?” “Baby, you are so pretty”. Ringhiano come meccanismo d’attacco, sentono l’odore della paura. Quando cala la notte, sei solo una potenziale vittima.

Vorrei precisare che questi lupi metaforici non sono sempre gli sconosciuti rintanati negli angoli bui. Il lupo si cela anche dietro all’amico che si pensa di conoscere, colui con cui di giorno condividi risate e battute superficiali e poi, al chiaro di luna, dopo aver condiviso una serata spensierata, ti mette la mano dove non vorresti. Il lupo è colui che, in discoteca, ti offre da bere e ancora e ancora, e sulla pista da ballo ti sta un po’ troppo vicino di quanto vorresti, ti fa sentire a disagio. “Adesso, vado a casa, buona serata”, ti prende il polso e te lo stringe e negli occhi vedi brillare quella luce insospettabile a prima vista. Il brillio famelico, il bisogno di avere il controllo e ottenere quello per cui era venuto a cacciare. E strattoni il braccio, obbligata a perderti tra la folla, con la paura che ti possa seguire.

Al chiaro di luna, i piedi dolenti per aver corso fino a casa e la insensata felicità di essere sana e salva, tra le coperte calde e lo spiraglio della porta socchiusa che dà speranza.

Fine episodio breve [29].

Episodio breve [27]: Altrove.

Ci sono dei momenti in cui il tempo si sospende. Sono attimi fugaci, fragilissimi, basta una minima distrazione che tutto s’infrange.

Mi succede in aeroporto, quando lancio l’ultimo sguardo a mia mamma per rassicurarla, o meglio, per rassicurare me. Vuol dire tutto e niente, vuol dire mi mancherai e vuol dire “devo andare”. Ci tocchiamo di nuovo e le nostre mani fanno fatica a scollarsi tra di loro. Ci lega un filo invisibile, annodato intorno alle dita che si prendono e si cercano, sono calde di abbracci, sono piene di tracce, di impronte, che porterò con me. Non c’è bisogno di parlare, ormai abbiamo imparato a non farlo. A non dirci che è doloroso, a non dirci che ci mancheremo moltissimo a vicenda, le parole sono diventate superflue, ormai. Il tempo si ferma, non esiste più nessuno e non importa più niente. L’aeroporto è un posto magico, attese eterne, corse, sguardi assenti, sguardi attenti, pensieri che aleggiano nell’aria. C’è solitudine e c’è compagnia, ci sono risate e pianti, ci sono storie d’amore e storie di amori persi. Persi in viaggi troppo lunghi, in attese diventate insostenibili e dolorose come pugni allo stomaco, un sentimento che è scemato con il tempo. Vedi? È sempre una questione di tempo, quanto ci resta? Quanto dobbiamo aspettare? Quando parti? Quando riparti? Ma i minuti non esistono più per me, non scandiscono più la mia esistenza come facevano allora, tutto mi sfugge dalle dita e non mi interessa. Non c’è più niente da aspettare, nessuno. Non ho più fretta, voglio rimanere in quell’attimo senza parole, senza secondi, i miei occhi persi in quelli di mia mamma. Che sono uguali ai miei, grandi e marroni, un mare in tempesta, ma la luce da qualche parte c’è.

Pausa.

Tutta la frenesia svanisce, siamo in un posto vergine dal rumore. E poi si rompe, la crepa iniziale, quasi sempre per colpa mia “devo andare” e vado. Il tempo riprende, come una canzone lasciata in pausa. Scale mobili, controlli, togliti i vestiti, rimettili, riprendi la valigia, ma non c’è paura, non c’è fretta. Ai pensieri il tempo non interessa, ritornano quelli del passato che fanno male, li raggiungono quelli del presente: fare la spesa, studiare, andare in biblioteca. Diventano rumore di sottofondo, nelle cuffiette una canzone che non sto ascoltando, dà fastidio. Il tempo mi accarezza le guance, non ho più motivo di aspettare.

Riprendo un’altra vita altrove, che avevo messo in stand-by per qualche giorno, che era rimasta sospesa nel tempo. “Devo andare” e vado.

Fine episodio breve [27]

Episodio breve [26]: LET ME TAKE A break, grazie

Andare a fare shopping è diventato una sorta di inferno sensoriale livello 100, roba che manco il mercoledì pomeriggio al mercato di Brescia. Premetto che sono una di quelle che “devo assolutamente comprarmi dei pantaloni, perché questi jeans elastici skinny neri a vita alta con due strappi orizzontali sulle ginocchia (mi raccomando, da dire tutto d’un fiato alla commessa perché se no non capisce), sono gli unici che ho”. E sono anche una di quelle che “Vaccaboia, ho dimenticato di comprarmi i jeans” ogni volta che esco per negozi.
Avendo firmato un compromesso di schiavitù celebrale con la mia università, lei in cambio si è presa gran parte del mio tempo, lasciandomi qualche ora qua e là durante la settimana per l’autocommiserazione. Di solito abbiamo appuntamento verso le sei del pomeriggio, lei sempre puntualissima, io un po’ meno. Dunque, quando ho del tempo libero lo dedico a sbrigare le diverse faccende che tengo in sospeso, un esempio: quei dannati pantaloni.
Ebbene, i negozi in sé sono solo quattro, sempre gli stessi da quando appresi la capacità di deambulare: Emma nasce, cresce, corre, Zara, Bershka, H&M e Pull & Bear.
A Barcellona la passeggiatina da un negozio ad un altro è tipo un mezzo Iron Man, aggiungeteci mezzo milione di persone che rallenta in base alla tua fretta di fare e già vi fate un’idea.
Non penso sia solo un problema mio, a tutti da fastidio trovarsi il vecchietto con il cappello sulla panda quando in macchina, no? Ecco, applicate lo stesso ragionamento a piedi e triplicate i vecchietti. Sentite quel prurito espandersi dalla punta dei piedi fino ai capelli? E rizzarvi i peli uno a uno? Si chiama nervoso, ed è così che mi sento.
Vabbè, per non parlare di quello che succede all’interno del negozio; entri ed è peggio della casa di nonna Maria. Un incubo olfattivo che ti scuote dal momento in cui sorchi la soglia. Un profumo che entra prepotente nelle narici, come se ti dicesse “Benvenuta all’inferno, qua spenderai tutti i tuoi soldi per magliette che non metterai e per portachiavi a forma di coniglietto che pensavi di non volere, e invece ora lo vuoi, lo vuoi più della laurea, del capodanno organizzato con tre mesi d’anticipo, lo vuoi più del tuo ex in ginocchio. Ok no, non ci allarghiamo troppo. Però lo vuoi.”
Da quel momento, e per i prossimi tre giorni, i tuoi vestiti avranno il profumo di Bershka. E Bershka lo sa.
Una volta che fai il tuo giretto, e ogni ragazza sa dalla prima occhiata se restare e provare qualcosa vale la pena, è ora di dirigersi ai camerini. Da quel momento in poi, le code per i concerti ti sembreranno uno scarso preliminare. Possono passare dai 10 ai 30 minuti (mi è successo solo una volta di accettare l’attesa infinita perché dovevo assolutamente comprare – e quindi provare – un costume da bagno). In quel lasso di tempo assolutamente inutile, ti chiedi se è davvero necessario che ti provi il top che hai in mano, se è davvero il colore giusto, la taglia giusta (perché di tornare lì non se ne parla proprio). E pensi a come potresti abbinarlo, a quanto costa e … e alla fine finisce che compri la solita maglietta bianca che sta bene con tutto. Ne ho almeno dieci a casa, tutte rigorosamente uguali. Te ne vai, mezza contenta per il tuo acquisto inutile, e ti dirigi verso le casse, perché la tua pazienza necessita del colpo di grazia; una volta che hai finito di leggere Proust, puoi finalmente pagare ed uscire a spintonate. Negozio 2, entri. “All I want for Christmasssss is youuuuuu”. Ed esci. Negozio tre: non capisci dove ti trovi, la musica rimbomba e hai perso la tua amica nella folla, luci stroboscopiche, luci neon, cieca e sorda hai bisogno di fumare una sigaretta ma poi ti ricordi che non sei in discoteca ma sei solo entrata da H&M.
Ed ecco che inizia la solita: “Uh, ma che bella sta felpa grigia” e poi la guardi e dietro a caratteri cubitali recita “I LOVE TACOS”, giusto, no? “Ma che bella questa maglietta gialla” “LET ME TAKE A SELFIE”. E dopo l’ennesimo insulto, solo per il fatto che siamo donne ed evidentemente cadiamo in depressione se i nostri indumenti non ci ricordano di mangiare i tacos e vivere la vita, si sale al piano maschile dove, per qualche assurdo motivo, le scritte da minorata mentale non appaiono più. Certo, c’è ancora il mistero delle felpe con date e luoghi messi a casaccio, tipo: OKLAHOMA, 1987. Così, evidentemente qualche laureato in storia ha deciso che quella era la sua strada. Il mistero rimane aperto.
Esci. Come al solito te ne torni in metro e appena entri a casa lasci la busta del delitto sul divano, di cui te ne ricorderai solo il giorno dopo.
Stanca di tutto quel camminare, spingere, sgomitare, pazientare, ti rintani nel tuo amato letto/rifugio.
Ed è esattamente in quel momento, in cui sei sotto le coperte comode, hai la stufetta accesa, senti che il mondo già non esiste più, che arriva: “Vaccaboia, ho dimenticato di comprarmi i jeans!!”

Solo il fischiare perpetuo nelle orecchie.

Fine episodio breve [26]

Episodio breve [24]: 4 di notte o di mattina?

- 'Ao -
- Cosa? Ma che vuoi? Ma che ore sono? E spegni sta luce! -
- Sono lo spirito del terzo Natale -
- Ma stiamo a Novembre -
- Ci sono o non ci sono le decorazioni nei negozi e per le strade, eh? Le luci! Le luci le hai viste? Quindi zitta. -
- Ok, va bene. In ogni caso, che ore sono? Domani ho lezione presto la mattina -
- Ma se non ci vai mai a quelle -
- Non è vero -
- Ma se l'altro giorno la profe ti ha chiesto se ti eri persa perché non ti aveva mai visto -
- Ma allora, ma si può sapere che vuoi? Sta luce m'acceca! -
- Semplice -
- Prego allora -
- Tutto quello che non sei riuscita ad avere -
- Molto bene, direi che siamo in due -
- Tutto quello che non sei riuscita ad essere, ma avresti voluto. Dio solo sa quanto,...-
- Dio non esiste -
- E nemmeno tu. Sei un concetto astratto, sei quello che gli altri vogliono da te e tu gli dai quello che si aspettano; una Emma fatta su misura. Tu reciti. Tu non sai veramente chi sei.-
- Nessuno lo sa, nessuno lo vuole sapere.-
- Ma tu ti credi unica, speciale. Ma sappiamo bene che in realtà sei un altro punto in un paesaggio di Seurat e stai solo cercando di nascondere questa tua incontrollabile paura di essere facilmente sostituibile, dimenticabile, come tutti. Cosa ti rende diversa? Assolutamente niente! E infatti, abbiamo le prove! -
- Si, ma ...-
- Ma cosa? Sei voluta scappare per raggiungere un sogno impossibile, per fare quella diversa e alla fine neanche sai fare bene una lavatrice! Non sai nemmeno se questa è la strada giusta per te o se sei veramente felice, e ti hanno pure spezzato il cuore! Povera, piccola, sensibile, cretina. Tutto quello che hai fatto, che hai sperato, si è dissolto come neve nell'acqua. -
- Io ... -
- Hai quasi 21 anni e tutto quello che hai non vale nulla. Porti ancora ferite vecchie e guarda! Si sono solo infettate. Non sei abbastanza forte per questa vita, tornatene a casa.-
- Vorrei dormire adesso, ti prego. Vattene, e spegni la luce.-
- Dove vuoi che vada? Io sono te. Dove vai tu, vengo anche io. Sono la tua ombra, il callo sul dito mignolo, i dolori allo stomaco quando i pensieri fanno male, sono gli incubi che la tua mente vomita tutta la notte e quando sei sola. Io sono l'Emma che non accetti, ma che quando cala il buio pesto vuoi abbracciare e sentire che è ancora viva. Sono L'Emma che conosce, che sa scomode verità e sta seduta su un trono di ghiaccio perché le bugie ti tengono caldo di giorno. Però, su di me puoi contare, ci sarò sempre, lo sai. Ah, e Emma?-
- Cosa?-
- Pensa...
- Pensa a come sarebbe potuto essere -
- Ma non lo è stato. E va bene cosí -
- Aspetta, come?-
- Che ci ho pensato, più e più volte. Ma non è colpa mia, e nemmeno tua. Sono strade che ci siamo scelte, tutte, e stiamo costruendo qualcosa di rischioso, sono d'accordo. Ma alla fine la vita non potra mai darci le certezze che speriamo, bisogna solo continuare a sperare nei sogni e nel futuro; sai bene che io lotterò fino alla fine per raggiungere quello che voglio. Come ho sempre fatto. Guarda che devi andarne fiera eh, questo è solo merito tuo. Se non ci fossi stata tu, ora non sarei dove sono. Non voglio più respingerti, e quindi penso. Pensiamo insieme. Pensiamo a come sarebbe potuto essere, a com'è e a come sarà.

E adesso, per favore, spegni la luce, che è tardi.
Vieni a dormire. -


Fine episodio breve [24]


Episodio molto breve [22]: ???Title not found??? cercalo bene, fra.

Quando inizi a vivere in una città diversa dalla tua, una qualsiasi, una parte di te si disperde in essa. Un cantante che mi piace molto, e che ascolto spesso e volentieri la sera tardi con un bicchiere di vino rosso accompagnato da singhiozzi a intermittenza: – Ma…perché… ( inserire qui grande sbaglio della tua vita)… –  In una sua canzone dice: “Ho fatto un giro in questa città ed e’ come fare un giro su me stesso”. Se vi suona un campanello, quasi sicuramente siete di Brescia o vi piace l’indie triste e schifoso come a me. Congratulazioni. Il punto e’ che Frah Quintale spiega esattamente quello che intendo scrivere in questo episodio breve mezzo depresso, alla fine diventiamo il luogo in cui stiamo e viviamo. Ci impregnamo della sua essenza e alle volte neanche ce ne accorgiamo. Magari ci stiamo solo per motivi accademici, magari la odiamo pure sta città che non ha mamma che ci prepara la colazione la mattina o non ha la burrata. Ah no, aspe’, Barcellona ha la burrata. Beh, non ha la polenta. Non ha mia nonna che fa la polenta, ecco. Meglio. Pero’, Barcellona o Milano o Bologna, non importa quale città sia, ha un pezzetto di noi; di me di sicuro dato che una volta mi hanno tirato una bottiglia di birra in testa e grazie a Dio ero ubriaca, se no come minimo sarei svenuta. Barcellona ha quindi il mio sangue, ma più di tutto ha la mia pazienza, la mia volontà ferrea, la mia attenzione, la mia forza e ha pure una mia borsa. Di Barcellona avete visto il Parc Güell, che e’ bellissimo davvero, e lo e’ pure la Sagrada Familia (più o meno), ma ora per me le vere bellezze di Barna sono i locali aperti fino a tardi e sempre pieni di gente che beve birra a tutte le ore, i colori del giardino del Labirinto in autunno e in primavera, le bici comunali a cui finalmente posso accedere perché ho il NIE, l’appartamento su Badi che costa meno di 500 euro e i “Ma parli benissimo spagnolo” detti da chi e’ nativo. Questo episodio breve osanna la mia città ma non più per i suoi lati più evidenti, bensì per i suoi angoli nascosti e personali. Nel parlare di questi dettagli, a mia volta sto svelando una parte di me piuttosto intima. E per ognuno di noi studenti fuori sede e’ cosi: Milano non e’ più il Duomo o i Navigli ma magari e’ una determinata panchina senza siringhe. Sto scherzando. Anche noi abbiamo le siringhe. ” … e l’eroina sopra le stagnole!”

Frah Quintale ti prego sposami, possiamo essere tristi insieme e puoi cantarmi tutto l’indie che vuoi. Porta il vino rosso.

Ma in realtà pure Sydney ha una parte di me, forse la più pura. La più innocente. Era tutto un’avventura continua e mi manca, davvero tanto. Il problema e’ che non so se mi manca la città in se … o l’esperienza che ho avuto in quel determinato momento. Mi manca Sydney o la parte di me che si e’ persa lì? Ma guarda te, ora che ci penso questo pensiero sulle città funziona benissimo anche con le persone:

Mi manchi tu o la parte di me che ha vissuto dentro di te e con te?

Forse dovrei solo andare a dormire.

“Ed ogni volta ci ricasco, mi stringi forte e mi trascini

giù in basso.”

Fine episodio breve 22

 

Episodio breve [21]: Non assomigli più a nessun’altra da quando ti amo.

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“Ma tu, perché hai deciso di studiare a Barcellona?”

“Ah, ma non sei Erasmus?”

“Ma ti trovi bene qua? Cioè, mi sembra bellissimo… Ma… perché?”

 Perché? Eh.

 

Ricevo spesso domande del genere da quando mi sono trasferita qua a Barcellona a frequentare l’università e oggi ho deciso di sciogliere parecchi punti di domanda in sospeso. Spiegherò perché ho voluto a tutti i costi entrare nella piccola/grande comunità della UB e,soprattutto, come la vive una studentessa italiana.

Oggi è stato il primo giorno del mio secondo anno di Lingue e Letterature moderne: spagnolo e inglese. Purtroppo, non avendo fatto nemmeno un quadrimestre di “prova” in Italia, non ho possibilità di fare paragoni. Mi limiterò dunque a darvi un quadro della mia esperienza e perché considero questa scelta la migliore della mia vita.

Il senso di smarrimento credo sia comune a tutte le matricole del mondo, ed è un sentimento che trascino anche al secondo anno, che sembra solo più difficile del primo altro che “ma sì, con il tempo ci prenderai la mano”, io non ci ho preso proprio nulla. Continuo a perdermi per i corridoi e continuo a sbagliare le classi, ma almeno stavolta sono più sicura di me stessa e semplicemente ho imparato a non farne un problema. Ecco, questa è una delle cose che all’inizio mi infastidiva e ora ho imparato ad apprezzare: qui a nessuno importa un carciofo di niente. Arrivi in ritardo? Sono affari tuoi. Non riesci a trovare gli orari e le aule delle lezioni? Non è un problema nostro. Non vieni alle lezioni? A nessuno importa. Sei tu che devi gestirti, poi ovviamente se fallisci l’esame non può che essere colpa tua.

Quando entri in classe potrebbero esserci benissimo 10 persone o 40 (so che sono comunque poche, ma questo perché ci sono numerose classi della stessa materia a orari diversi, proprio per evitare il gregge di pecore e odore di zuppa d’aglio nelle aule). Il professore potrebbe presentarsi in orario come potrebbe benissimo fare la sua entrata un’ora dopo del previsto, nonostante la loro puntualità da prime donne certo è che tutti i professori che ho incontrato hanno mostrato di amare il loro lavoro. Sono spiritati da un’emozione alla Attimo Fuggente e ti viene subito voglia di comprarti tutti i libri della bibliografia. Mi piace vedere come la loro eccitazione li porti ad infradiciarsi completamente la camicia, sembra quasi di stare ad un concorso di miss maglietta bagnata a Rimini, anzi mister perché quasi tutti i miei professori sono uomini.

Mi piace quando chiedono e si interessano agli studenti, addirittura imparano i nostri nomi e cercano in ogni modo di renderci partecipi alla lezione. Non c’è stato un giorno in cui non sia stata felice di assistere ad una lezione, perché anche quando non hai voglia, cercano sempre di fartela venire. Le aule sono vecchie e l’acustica fa schifo, ma il “vissuto”, il vecchio e il marcio mi sono sempre piaciuti ( e questo dice molto della mia vita sentimentale). In fondo, si sa che la facoltà di lettere è il ritrovo dei disadattati, dei pensatori da quattro soldi, dei filosofi mancati, degli Alberto Angela della poesia, degli Umberto Eco non richiesti! Ma come se non bastasse, il nostro “castello” (la mia sede è in centro, Plaza Universitat, e Hogwarts levate) è invaso da coloro che si credono la razza ariana, gli omini veri, GLI ERUDITI, e poi: “Scusate, questa è Didattica della matematica?” “No, matematica è nell’altro atrio, questa è Narrativa spagnola”. E si ritirano impauriti usando la calcolatrice a mo’ di crocifisso. Sì, pensano di essere i “normali” LORO; alla fine siamo tutti sperduti nel nostro mondo immaginario, che sia fatto di libri e racconti o calcoli e… che ne so, mica faccio Matematica. VADE RETRO SATANA.

In ogni caso, ho scelto Barcellona perché c’è il sole; può sembrare una sciocchezza ma uscire di casa la mattina e vedere il cielo azzurrissimo, limpido e sentire la brezza marittima accarezzarti il viso, è quasi meglio del cappuccino con la brioche. Beh, ho detto quasi. E poi a Barna ( Barça è la squadra di calcio, per capirci una volta per tutte) fa caldo fino a Novembre e puoi ancora farti il bagno perché c’è il mare! Ho capito, allora potevi andare a Cagliari a studia’, no? Beh, sì. Ma il fatto è che Barcellona mi fa stare bene anche con i suoi numerosissimi difetti ( La Rambla, la puzza di piscio perenne, lo sporco e l’immondizia ovunque, l’umidità, i turisti che non sanno vivere, le persone che non sanno vivere in generale, la mancanza di senso pratico, organizzazione questa sconosciuta,…) e, soprattutto, perché non ti fa mai sentire sola, che è una cosa importante se hai 20 anni e sei arrivata senza conoscere nessuno. Altro che Erasmus, all’inizio ho sentito la solitudine mangiarmi lo stomaco e il cervello, altroché. Ho passato giornate intere senza spiccicare parola con nessuno, almeno in Cast Away Tom Hanks aveva la palla.  Però, studiare in una città estera ti fa sentire fica; so che è un termine poco letterario o raffinato, ma non riesco a trovare un termine affine che lo spieghi altrettanto bene. Ti fa sentire fica, indipendente e, in un certo senso, speciale.

Ma, come ho già anticipato, ogni città può essere quello che Barcellona è per me. C’è chi infatti non capisce il mio affetto e il mio attaccamento, allora mi limito a citare Neruda (che non amo, ma la citazione si addiceva al contesto): “Non assomigli più a nessun’altra da quando ti amo”. Ed è così vero, Barna non assomiglia più a nessun’altra città da quando la amo.

Fine episodio breve [21].

Episodio breve [18]: Odio i puzzles.

6d0e38b7e44ce22a88290a3688c55696La distanza è difficile, in generale. Diventa complicato mantenere le relazioni, dalle più superficiali alle più intime e profonde; i kilometri non risparmiano nessuno, non importa quanto ti credi forte e indipendente. Certo, la forza di volontà è senza dubbio importante, ma ci sono mattine e ci sono sere in cui vorresti solo non essere così lontano da tutto e da tutti. Dalla famiglia, che ogni giorno illumina lo schermo del telefono con rapidi messaggi per sapere se stai bene: “Ciao, come stai?” seguito da inutili commenti sul meteo:    “Qui piove”,”Anche qui piove”, e così a ripetizione, giorno dopo giorno. Ci sono momenti in cui mi chiedo perché lo stia facendo, perché ho deciso di fare l’università all’estero e non potevo semplicemente accontentarmi di un Erasmus. Ci sono momenti in cui vorrei tornare a casa, in cui vorrei davvero mollare tutto per stare vicina alle persone che amo, per eliminare quella distanza che irrita lo stomaco e pizzica gli occhi. Per eliminare quella sensazione continua di “perdersi qualcosa” e, nel mio caso, anche perdersi “qualcuno”. Sentirsi ritagliati fuori dalla vita dei tuoi amici e della tua famiglia a casa, sentire che gli anni passano e tu non ci sei per viverli con chi conta perché stai costruendo un altro puzzle della tua vita da adulta, cui pezzi devi trovare da sola.

E ogni volta che vedo un tramonto penso a qualcuno che mi è lontano e vorrei che fosse con me a parlare del mondo, e ogni volta che cucino qualcosa di assolutamente orrendo penso a quanto vorrei che ci fosse mia madre a dirmi dove sto sbagliando e a prepararmi qualcosa di integrale o senza glutine. E per ogni cosa che non capisco, per ogni cosa in cui mi sento troppo “piccola”,o magari voglio sentirmi così, sono a un numero di telefono per la soluzione.

Alle volte mi sento come se stessi bruciando le tappe, come se avessi sempre il bisogno di divorarmi le esperienze; di vivere di più, anzi, di voler vivere di più degli altri. In realtà una parte di me vorrebbe solo stare in famiglia a mangiare coniglio e polenta, a leggere seduta nella mia terrazza sotto il sole estivo, con mia mamma accanto che studia e mangia anguria: “Emma stai su dritta con la schiena, se no diventi gobba” e passeggiare in centro con le mie amiche di sempre, senza esserci mai separate.

Sí, forse in un’altra dimensione esiste una Emma così, ma probabilmente non sarei ne più felice ne più triste, sarei sempre io con altre storie da raccontare e altri sogni nel cassetto da realizzare; sarei sempre io con altre mancanze, di luoghi mai visti e di una vita all’estero idealizzata e agognata. Sentirei comunque quella sensazione di “perdermi qualcosa”/”qualcuno” e sarei io; sentirei la mancanza di una me che esiste ora e vive la vita di adesso, a Barcellona, studiando all’estero.

E questa è la mia piccola consolazione per tutti quei momenti in cui sento le spine nel cuore e la mano della distanza stringermi le budella per farmi sentire male ad ogni: “Se ci fossi tu qui, Emma…”. E io non ci sono e non ci sarò, perché devo costruire il puzzle di questa vita che mi sono scelta e, chissà, magari un giorno troverò gli ultimi pezzi che mi mancano proprio a casa mia.

“Ciao, come va?”

“Bene dai, tu?”

“Bene, qui piove”

“Qui invece c’è il sole”.

Fine episodio breve [18]

 

Episodio breve [17]: Bestemmia, Rossomalpelo e Raviolo.

Siccome tra non molto finisce un’altra esperienza della mia vita, mi sembra giusto dedicarle uno dei miei episodi brevi per darle l’importanza che merita. Dopo aver vissuto con Silvia, che è più una sorella che un’amica, e aver raccolto i pezzi del mio cuore frantumato (per innumerevoli eventi, in particolare proprio per l’abbandono della mia coinquilina) a Febbraio ho iniziato una nuova convivenza con nuovi coinquilini, in un appartamento diverso e un quadrimestre universitario da vivere. Sempre a Febbraio sono anche uscita con Fabio per la prima volta, ma questo è un altro episodio breve che con il tempo svilupperò, diciamo solo che non ho fretta e non voglio averla.

Avevo già accennato in precedenza al numero di coinquilini (totale, me inclusa, 6) e al fatto che l’appartamento fosse nuovo e quindi molto bello (ho vissuto in case dove il soffitto cadeva a pezzi e la mattina mi svegliavo pensando di avere la forfora quando in realtà erano proprio briciole di intonaco bianco). Ma passiamo ai miei compagni di piso, di cui 3 sono fissi mentre gli altri vanno e vengono, entrano ed escono dalle nostre vite. Alcuni lasciano un’impronta, altri il dentifricio. Utilizzerò nomi di fantasia perché ho paura che possano rintracciare il mio blog in qualche modo: iniziamo da Bestemmia, il proprietario di casa con i money veri e un complesso di inferiorità. All’inizio è stata dura approcciarsi a questo individuo, dato che passa metà della sua giornata a lavorare (ancora non ho capito bene dove) e l’altra metà incollato allo schermo del televisore inveendo contro la madre dell’avversario, inveendo contro lo schermo e inveendo contro la madre dello schermo. E il tutto ad un volume altissimo che Sgarbi gli fa le scarpe. E sua madre pure. Fissatissimo con i cactus e il pulito.

Rossomalpelo, il mio preferito, colui che se ne lava le mani ogni talvolta che c’è un problema in casa, colui che appena entro in cucina o mi siedo sul divano mi guarda e mi fa: “Dai, Emma. Cosa c’hai oggi?” E ascolta, tutti i miei pensieri e le mie paranoie malate, in spagnolo e italiano (lo parla e capisce bene, ha fatto un Erasmus a Bologna). L’ho soprannominato così perché credo sia l’unico catalano in tutta Catalunya ad essere rosso di capelli, con lentiggini e tutto il resto. Lui mi mancherà davvero.

Raviolo, perché mi fa talmente tanti scherzi stupidi che mi fa tenerezza e quando è quasi entrato un ladro in casa (eheh) era sinceramente spaventato e preoccupato per me che appena ha potuto è corso a casa a consolarmi. Fissato con la pasta.

E poi ci sono tutte le altre coinquiline che sono passate nell’arco di questi 5 mesi: la tedesca, che non amava unirsi alle conversazioni e nemmeno alla vita in generale però le piaceva cucinare la quinoa, con quei maledetti pallini che si insidiano pure tra le dita delle mani e ti chiedi perché. Alba, una dolcezza di ragazza, di quelle che capitano una volta sola nella vita. Ascoltatrice delle mie pene d’amore e consigliera, quando se n’è andata ne ero molto triste. Una di cui non ricordo il nome perché mi è stata automaticamente antipatica. Camila, la cilena; lei, mentre ci stavano quasi per rapinare, dormiva. Io manco sapevo fosse in casa, ha dormito anche durante l’arrivo della polizia. Mi è stata subito simpatica nel momento in cui me l’ha detto.

Ora siamo a giugno e a fine mese si conclude anche questa stramba convivenza dove mi hanno quasi derubato ( se non fossi stata in casa) e per la prima volta ho convissuto con dei ragazzi che erano già istruiti sul fatto che non cagassimo fiori. La casa è sempre viva, c’è sempre qualcuno piazzato sul divano o a giocare alla xbox o in cucina (qui meno perché mangiano solo grazie al cibo d’asporto) e vi assicuro che le mie scelte future saranno sempre orientate per una casa di maschi, anche se non saranno mai speciali come questi miei piccoli uomini di casa.

Fine episodio breve [17].

Episodio breve [16]: Ciao, ipotetico qualcuno.

Lettera ad un ipotetico qualcuno che ho ritrovato fra le scartoffie di duemila anni fa:

A te che mi hai dato della ragazza INTENSA ti auguro pollo bollito per cena,
Riso in bianco rigorosamente scotto,
verdure bollite,scondite
E cereali integrali insapore.
Ti auguro magliette bianche con il colletto alto,  infilate DENTRO i pantaloni.
Ti auguro del sesso,
ma solo in camera,sul letto, con le luci spente e i calzini addosso e programmato la sera prima. O due sere prima.
Ti auguro non esattamente l’ AMORE ma quel sentimento che può essere scambiato erroneamente per amore in un giorno in cui ti senti particolarmente annoiato.
Ti auguro giorni in cui ti senti particolarmente annoiato.
Ti auguro una casa dal colore che ricorda vagamente i cereali integrali insapore.
Ti auguro un lavoro che richiede solo magliette bianche con il colletto alto,
infilate DENTRO i pantaloni.
Un ufficio senza finestre, biscotti Mulino Bianco sciolti nel latte freddo e pane integrale raffermo.
Ti auguro foto matrimoniali incorniciate in una fottuta cornice a forma di cuore con i brillantini.
Ti auguro un cane che fa pipì sempre nello stesso medesimo punto della casa MA non ogni giorno, solo “spesso”. Abbastanza da farti dimenticare di nuovo il loco infimo e farti inciampare nuovamente sopra con i calzini bianchi un mercoledì mattina.
Ti auguro una settimana intera di mercoledì mattina.
E ti auguro conversazioni infinite che non sfociano mai in qualcosa di interessante o profondo, ti auguro solo discorsi di vomito di bambino, di pannolini ripieni, di “amore, hai portato a spasso il cane oggi?” e di calzini sporchi di piscio.
Ma non ti auguro me.
Me? Mai più, mai.
Ti auguro tutti i figli che non eri sicuro di volere e, in particolare, una figlia
Si, una figlia
il cui sorriso ti ricorderà fin troppo il mio.

Fine episodio breve [16]